L’imprecisa onniscienza di Facebook

Razza, politica, viaggi: quello che l’algoritmo di Facebook non azzecca

C’è un’intera categoria di informazioni che Facebook pensa di avere su di me e che è anche disposto a vendere – il problema è che non sono del tutto accurate.
Di Megan Carpentier

Facebook sa tutto di noi. O almeno è questo che sentiamo sempre ripetere noi e i pubblicisti a cui ci vende. Ma una sbirciatina al suo algoritmo indica chiaramente che quello che sa potrebbe essere sbagliato.

Come uno qualsiasi dei suoi 1,65 miliardi di utenti potrebbe dirvi, Facebook “aggiorna” costantemente le sue impostazioni sulla privacy, ecco perché controllo le mie impostazioni ogni poche settimane. Cerco di mettere un freno a quello che gli estranei possono scoprire su di me tramite Facebook o alle informazioni cui hanno accesso; non perché non abbia voglia di partecipare attivamente alla vita sulla piattaforma, ma perché la mia famiglia è a disagio nel sapere che degli estranei abbiano accesso alle loro vite private, e mi sembra giusto.

Ma anche se scegliessi di condividere informazioni con persone che non conosco – sono una giornalista e non accetto richieste di amicizia da estranei, come vedrete se proverete a cercarmi – e permettessi a tutti di seguire i miei post pubblici, c’è un’intera categoria di informazioni che Facebook pensa di avere su di me, e sostanzialmente permette a chiunque sia disposto a pagare 5 dollari pur di fare pubblicità tramite il suo sito di usarle.

 Sepolte tra le impostazioni sulla privacy – cliccate sulla piccola icona a forma di lucchetto, poi “Vedi altre impostazioni”, poi la parola “Inserzioni” nella colonna a sinistra, poi “Modifica” nella riga “Inserzioni in base alle mie preferenze” e poi “Visita le preferenze relative alle inserzioni” – ci sono moltissime parole chiave che Facebook ha assegnato al vostro profilo, a cui i pubblicitari possono attingere quando creano le loro inserzioni.

Per chi non ha familiarità con l’acquisto di inserzioni su Facebook: quando compri un’inserzione o promuovi un post, l’azienda ti permette di andare a colpire alcuni utenti in base a ogni sorta di informazione, compreso il tipo di telefono che usano e una lista di preferenze in base a parole chiave. I pubblicitari tirano un sospiro di sollievo sapendo che non stanno mandando inserzioni di trucchi a mio zio Pete, e Facebook può vendere più spazi pubblicitari affermando che chi non è coinvolto non li vedrà.

Ma gli algoritmi sono modi fallaci di categorizzare la gente: spesso siamo confusionari e imprevedibili, e usiamo Facebook per ragioni diverse. Quindi quello che Facebook pensa di sapere – e vende ai pubblicitari – su di me non è del tutto accurato.

Ad esempio: sotto a “Stile di vita e cultura”, Facebook mi definisce afroamericana secondo la mia presunta “affinità etnica”. Pensa anche che io sia interessata tanto al comunismo quanto al partito politico socialdemocratico fiammingo (anche se non sono mai stata in Belgio, se non si conta uno scalo nel 1995). Mi considera uno dei suoi “tardi utenti” e dice che sono allo stesso tempo in un “nucleo domestico familiare” e “lontana dalla famiglia”.

Inserisce Princess Superstar come una delle persone a cui tengo perché nel 2007 io e il mio amico Josh ridevamo del suo video Bad Babysitter – ci siamo incontrati mentre facevo la dog-sitter per i suoi coinquilini – anche se non mi piace su Facebook e sono abbastanza sicura che non ne abbiamo mai parlato sulla piattaforma; crede che mi piaccia l’artista Flea perché ho messo “like” alla pagina di un locale mercatino delle pulci [“pulce” in inglese si dice flea, N.d.T.]. Pensa che io sia una grandissima fan del wrestling professionista – credo che la colpa sia il mio articolo sul caso Gawker, che da brava impiegata del Guardian ho condiviso su Facebook – e che mi piaccia il campionato di calcio della Tasmania, anche se non mi interessa il calcio né sono mai stata in Tasmania.

Pensa anche che io sia stata a Bruges, sull’Isola di Pasqua e in una località chiamata “Le palme del Cervino” (quest’ultimo in realtà è un ristorante in cui ho mangiato una volta, solo che non è né in Svizzera né in Italia).

Correttamente nota che compro scarpe online (ma non cliccando su pubblicità di Facebook), che mi piace bere, che ho un interesse verso i mammiferi (ma ad essere onesti apprezzo anche i rettili); sa che telefono uso e quale usavo prima, e che passo buona parte del mio tempo su Facebook usando Chrome. In qualche modo sa anche che quando sono in ufficio ascolto i concerti di Vivaldi su YouTube, che ero (finora) la fan segreta del police procedural e che ho un interesse – come dicono loro, ma non è vero – nei confronti del suffragio, anche se su nessuna di queste cose ho mai messo un like o un post.

Mentre i pubblicitari non possono entrare nel mio profilo e trovare queste informazioni – o quanto meno, non ora che ho cambiato le impostazioni – possono accedere alla mia analisi basandosi su quello. E Facebook fa soldi con le informazioni che gli fornisco esplicitamente, ma anche con quelle che racimola attraverso l’uso che faccio della piattaforma e, chiaramente, che non avrebbe modo di conoscere se non mi controllasse anche fuori dalla piattaforma, comprando ad esempio informazioni sulle mie preferenze sul libero mercato.

Potrei cancellare tutto e obbligarlo a ricominciare da capo – potrei farlo, ma dovrei cancellare ogni elemento a uno a uno. E poi a quel punto ricomincerebbe da capo – chissà, forse la seconda volta ci azzeccherebbe anche.


Megan Carpentier, «Race, politics, travel plans: things Facebook’s algorithm can’t get right», The Guardian, 2 luglio 2016

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