«Bisognerebbe pensarci due volte prima di scalzare Putin»
La storia della Russia è caratterizzata da sofferenze, povertà e violenza. Il Paese è ancora schiacciato dal peso del proprio passato. Come è cambiata la Russia? E come deve reagire l’Occidente? Lo storico Jörg Baberowski, specializzato nell’Europa orientale, invita alla prudenza.
Di Peer Teuwsen
Non si può dire che l’Unione Sovietica abbia elaborato lo stalinismo.
No, affatto. Il concetto di “elaborazione” è di stampo protestante. Noi pensiamo che per tutte le società l’elaborazione sia il solo modo di affrontare il passato. E per la Germania è stato certamente così. Ma ci dimentichiamo che in Germania l’elaborazione si è svolta sotto il controllo degli Alleati, non in uno Stato sovrano. Non dobbiamo farci illusioni su cosa accade quando vittime e carnefici si incontrano senza arbitri e mediatori. […] I tedeschi poi hanno indirizzato e condotto la propria violenza soprattutto all’estero, cosa che rende più semplice elaborare il passato. Nell’Unione Sovietica, la violenza era rivolta verso l’interno. Come venire a patti con una tragedia simile, se non con il silenzio? Nella maggior parte dei Paesi dell’Europa centrale e occidentale quanto meno si ricordavano periodi migliori, precedenti alla dittatura. I cittadini sovietici non avevano nulla di simile a cui aggrapparsi.
Nella prefazione al suo studio Räume der Gewalt [Gli spazi della violenza, N.d.T.], scrive che la violenza l’ha cambiata: «L’autore si fa pessimista e deve proteggersi dal male che vede ovunque. Un giorno dovrà smetterla di occuparsi di violenza, perché gli avvelena la vita e lo incupisce». E lei, perché non ha ancora smesso?
Ho preso le distanze dalla violenza. Non leggo più testi sull’argomento. La violenza ti avvelena. Per una persona normale non è divertente alzarsi ogni mattina e leggere anno dopo anno resoconti su Auschwitz. Ho dedicato due anni della mia vita all’archivio di Stalin. Ora basta.
Per un occidentale come me, abituato a un benessere trasandato, testi simili risultano quasi insopportabili. Descrive scene di violenza lunghe intere pagine. Crede nell’effetto purificatore dell’accuratezza?
Qualcuno lo deve pur fare. Non lo fa quasi nessuno. Il primo è stato Christopher Browning, che nel 1992 con lo straordinario Ordinary Men ha descritto la tecnica omicida portata avanti dai nazisti in Bielorussia e Ucraina. Prima di allora gli storici trattavano l’omicidio come una faccenda astratta. Se non si guarda da vicino si può pensare davvero che Auschwitz sia stata una “macchina” di annientamento. Ma Treblinka e Auschwitz non erano per niente industrie dell’annientamento. L’omicidio organizzato era “un lavoro artigianale”, che andava descritto nel dettaglio per chiarire cosa fosse la violenza e cosa era in grado di fare alla gente. Chi dice che la borghesia deve essere ammazzata, che gli ebrei vanno annientati o che gli immigrati andrebbero deportati, resta nell’astratto. Spetta a me mostrare loro che mettere in atto queste parole è una faccenda diversa. Non sono certo uno storico pedagogico, ma credo che se le scene di violenza venissero descritte in modo sufficientemente preciso, si potrebbe capire meglio l’importanza di resistere alla crudeltà e di sostenere ordinamenti in cui si può essere liberi nella diversità.
Lei definisce questi Stati “sistemi di sicurezza cittadini”.
Esatto, questi sistemi proteggono la nostra libertà. Dobbiamo difenderli.
Putin è l’ex capo del KGB, quindi non è certo un sostenitore del cordoglio; ha imbrigliato i social media e tiene le redini della giustizia. Perché un uomo del genere gode di tanta approvazione nella società russa?
Prima di tutto, buona parte della popolazione ricorda il KGB come strumento non di terrore, ma di monitoraggio. Come se non bastasse, il tentativo di Gorbačëv di democratizzare la società sovietica è andato di pari passo con una perdita consistente di benessere. La povertà si è presa gioco di ogni conquista politica. La rassicurazione delle élite che ora i cittadini potevano votare ogni quattro anni sembrava un insulto alla popolazione ridotta alla fame. Ricordo un operaio che mi ha detto: «La bocca mi serve solo per mangiare». E poi le istituzioni statali sono crollate. Nel 1993 sono stati 30.000 i russi morti per guerre tra bande: erano le condizioni di una guerra civile. L’idea dominante era che in uno Stato del genere si poteva avanzare solo prendendo con la violenza quello che si voleva. Per non parlare poi del fatto che nel 1991 crollava l’impero, sciolto dall’alto. Milioni di persone erano diventate stranieri nel proprio Paese. Erano forestieri gli Abcasi in Georgia e i russi in Estonia.
È per questo che Putin è popolare?
Non è sicuramente amato. Ma ha riportato l’ordine e la sicurezza. Un mio conoscente di Mosca, proprietario di un ristorantino, mi ha detto una volta: «Con El’cin mi derubavano cinque banditi a settimana. Ora solo una volta l’anno, e il bandito è lo Stato. È già un progresso.» Quello che ci dimentichiamo in Occidente è che gli ordinamenti autoritari possono ampliare la libertà l’azione di chi vive in condizioni precarie. La vita in Russia è migliorata.
In Occidente sembrano però tutti concordi nel voler rifiutare Putin. Come possiamo gestire in modo più intelligente i rapporti con Putin o con la dirigenza russa?
Riconoscendone l’importanza. Ammettendo che la storia dell’Unione Sovietica è diversa da quella dei tedeschi. Dobbiamo capirlo: in Russia non ci sarà un ordinamento democratico, di sicuro non tra cinque o dieci anni. Occorre accettare questa realtà. L’opposizione russa non è formata da liberali, ma da comunisti e neofascisti. Occorre riflettere se sia davvero una buona idea scalzare Putin. Non sono un sostenitore del sistema autoritario. Ma una politica pragmatica deve tenere conto di queste condizioni. Del resto, il governo federale di Berlino si comporta allo stesso modo anche con l’Arabia Saudita.
«“Man sollte sich gut überlegen, ob es eine gute Idee ist, Putin zu stürzen”», Peer Teuwsen, Neue Zürcher Zeitung, 2 dicembre 2017