Perché crediamo di essere più buoni di quanto siamo in realtà?
Uno studio ha scoperto che il 98% delle persone pensa di far parte della metà “buona” della popolazione. E questa illusione influenza ogni cosa, da come giudichiamo la nostra avvenenza al nostro stile di guida.
Di Simon Usborne
Quanto sei buono? No, davvero, in fondo in fondo, quanto sei buono? Sarebbe facile pensare che una scarsa stima di sé porti a sminuire le proprie migliori qualità, ma le ricerche mostrano proprio il contrario – a prescindere dalla nostra sicurezza, non siamo buoni quanto pensiamo di essere. Né attraenti, né competenti… e la lista continua. Se la bontà fosse un numero, saremmo colpevoli di arrotondamenti per eccesso piuttosto estremi.
Se riesci ad affrontare questa batosta emotiva (del resto sei comunque buono, solo non così buono), senti cosa dice Jonathan Freeman, docente di psicologia alla Goldsmiths, University of London. In uno studio che ha condotto per una compagnia aerea, ha scoperto che il 98% di noi pensa di far parte del 50% dei “buoni”.
Il dato è emerso quando Freeman ha chiesto ai partecipanti di valutare la propria cortesia (alcuni lavoravano per la Monarch Airlines; la compagnia deve essere stata enormemente sollevata nello scoprire che erano più buoni della media). Poi ha chiesto loro di rispondere a domande volte a stabilire la propria disponibilità oggettiva (ad esempio, se erano soliti dare indicazioni agli sconosciuti o donare il sangue). «C’è una forte aspirazione sociale nel vedersi buoni, ma non è così facile» dice Freeman.
Ci lusinghiamo – e ci inganniamo – in molti modi. In uno studio congiunto sul tema dell’aspetto fisico, portato avanti dagli psicologi delle università di Chicago e Virginia, i partecipanti hanno osservato immagini di se stessi, incluse alcune che erano state leggermente alterate con mezzi digitali per adeguarsi a norme condvise di maggiore o minore avvenenza. Quando è stato chiesto loro di identificare le immagini che non erano state modificate, i partecipanti hanno spesso scelto la versione “migliorata” di se stessi. Eppure, quando gli sono state mostrate immagini di altre persone, i partecipanti hanno scelto correttamente quelle inalterate.
Ci sono varie teorie sulle ragioni di questo effetto “sopra-la-media”, che si applica pressoché a qualsiasi cosa (quando glielo si chiede, più del 90% dei guidatori si giudica migliore della media). Inconsciamente ci inganniamo per essere più sicuri, senza sapere che stiamo mentendo a noi stessi. Altri studi mostrano che il miglior rimedio per questa inconsapevole auto-esaltazione, se lo si desidera, è semplice: avere un riscontro. Ma le cose sono comunque complicate.
Margarita Mayo, docente di leadership alla IE Business School di Madrid, ha seguito più di 200 studenti nell’arco di un anno. Alla fine di ogni semestre, gli studenti dovevano esprimere un giudizio su di sé e sui propri compagni di corso in merito a diverse qualità di leadership. Anche se la valutazione dei compagni era peggiore della propria all’inizio dell’anno, con ogni valutazione si incoraggiava l’auto-riflessione e nel complesso le auto-valutazioni venivano ridimensionate. Ma arrivavano mai a eguagliare quelle dei compagni? «Solo tra le donne» dice Mayo. «Anche se la valutazione diminuiva [dall’inizio dell’anno], gli uomini continuavano ad accentuare la propria visione di sé».
Le donne mostrano maggiore consapevolezza di sé e più rapidamente, elemento questo solo in apparenza positivo: Mayo teme che quando il divario di ego riguarda la sicurezza di sé, «può rappresentare un passo indietro per le donne in termini di avanzamento di carriera». Per gli uomini, invece, c’è da temere che questa percezione esaltata di sé porti a promesse esagerate nel mondo del lavoro. «È una lama a doppio taglio» aggiunge Mayo. Dopo aver analizzato gli effetti del narcisismo sul posto di lavoro, ha scoperto che l’umiltà batte l’ego ogni volta che la qualità è considerata prioritaria. «I leader narcisisti faranno anche carriera più in fretta, ma quelli umili sono in genere più creativi ed efficaci e danno il buon esempio». In sostanza, sono loro quelli buoni.
Simon Usborne, «Why do we think we’re nicer than we actually are?», The Guardian, 13 marzo 2017