La Memoria non passa attraverso i selfie

…basta Yolocaust! Non ne posso più dei selfie a Dachau

Di Miriam Dahlinger

«Fammi vedere le foto che mi hai fatto al campo». «Bella questa, la uso per il profilo Instagram».

Sul treno da Dachau a Monaco mi trovo seduta davanti a due giovani turiste. Guardano le foto scattate con gli smartphone. Hanno appena visitato il campo di concentramento di Dachau.

Le foto dei memoriali e degli ex campi di concentramento non sono un fenomeno insolito sui social media. Ci sono addirittura blog che raccolgono queste foto inopportune. L’esempio più recente si chiama yolocaust.de ed è stato fondato dal comico israeliano Shahak Shapira.

Sul blog campeggia ad esempio la foto di un uomo che fa il giocoliere con palline colorate. Se ci si clicca sopra, il giocoliere non è più nel memoriale, ma tra i cadaveri di un campo di concentramento. Con la sua satira, l’ebreo vuole criticare il fatto che molte persone usano il monumento come scenografia per le loro foto profilo di Facebook, Instagram, Tinder o Grindr.

Questo mettersi in mostra è tipico anche del sito commemorativo di Dachau. Già all’ingresso, un numero incredibilmente alto di visitatori se ne sta fermo a scattarsi foto con la scritta «Arbeit macht frei». C’è anche una famigliola, che ha scelto questo ambiente innevato per una foto di gruppo.

In linea di massima è consentito fare foto nel memoriale. Ma chi ci lavora avverte sempre di non esagerare coi selfie. «Teniamo sotto controllo i nostri siti Facebook. Ma non abbiamo abbastanza risorse per il controllo costante dei social, come Twitter e Instagram» dichiara una collaboratrice del memoriale di Dachau.

La scritta di ferro è il simbolo carico di cinismo dei crimini commessi dai nazionalsocialisti tra il 1933 e il 1945 in questa città dell’Alta Baviera, a 20 chilometri a nord-ovest di Monaco. Dachau è stato il primo campo di concentramento sistematico, che ha fornito una sorta di prototipo e di campo di addestramento per le SS. Quello che veniva spacciato per “rassicurazione della popolazione” era un omicidio di massa.

Oltre 41.000 prigionieri hanno perso la vita a Dachau. Le camere a gas non sono mai entrate in funzione, ma centinaia di migliaia di detenuti sono morti in condizioni igieniche deplorevoli, tra fame e stenti.

Cosa spinge la gente a mettersi in posa in un campo di concentramento per il proprio profilo social e a taggare le immagini con hashtag come #instacaust, #niceday o addirittura #yolocaust?

Progetti come #uploadingholocaust mostrano che le foto dei campi di concentramento e il confronto consapevole con l’Olocausto non sono due concetti antitetici. Questo documentario presenta giovani israeliani che hanno ripreso in video-diari le proprie reazioni di fronte all’omicidio di massa degli ebrei. Con foto e video gli studenti sono stati introdotti agli eventi storici. Molti di loro scelgono questa modalità per ricordare i propri parenti morti per l’Olocausto.

E hanno tutto il diritto di mostrarsi sorridenti. Per loro i selfie sottolineano il fatto che sono in vita – nonostante l’ininterrotta agonia che hanno dovuto sopportare i loro antenati. Ma non è di loro che voglio parlare, ora.

Invece di affrontare i crimini commessi a Dachau, alcuni visitatori si comportano come se fossero in una sorta di parco divertimenti e non in un ex campo di concentramento. Pantaloncini, panini e selfie compresi.

Dachau è solo un’altra sosta sulla lista di monumenti che vogliono condividere con amici e follower? Oggi campo di concentramento, domani castello di Neuschwanstein?

Forse le foto a questi luoghi sono l’indice di un sovraccarico. Siamo la terza o quarta generazione dopo il nazionalsocialismo. Per noi i crimini del nazismo sono difficili da concepire. E visto che non sappiamo come reagire alle crudeltà che si sono verificate qui, ci rifacciamo ai comportamenti noti, fotografando quello che ci troviamo davanti. Facebook, Instagram e Twitter in fin dei conti sono diventati il modo in cui ci confrontiamo con i temi attuali.

Ma questi scatti ci aiutano a capire davvero posti come Dachau? Siamo così abituati a fotografare tutto che abbiamo bisogno delle foto per elaborare le nostre impressioni?

Io non credo. Basta guardare al successo dei populisti di destra per capire quanto è importante affrontare il nostro passato in maniera consapevole. Per capire quello che è successo nei campi di concentramento dobbiamo spegnere il telefono, almeno per la durata della visita.

Le ragazze del treno si sono accorte che le stavo ascoltando e mi hanno rivolto la parola. Mi hanno chiesto se sono di Dachau. «Sì» rispondo, e mi preparo già il solito discorsetto di risposta su com’è stato crescere in un posto così tristemente famoso. Ma a loro questo non interessa. Mi dicono: «Ottimo. A quale stazione dobbiamo scendere per l’Hofbräuhaus?»


Miriam Dahlinger, «Schluss mit Yolocaust! Ich kann keine Dachau-Selfies mehr sehen», Bento, 19 gennaio 2017

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