La più grande macchia d’invisibilità sulla Terra? È l’Indonesia, e si sta risvegliando
Il mondo non può più permettersi di ignorare questo variegato arcipelago – la sua insaziabile quanto pronta democrazia, la sua grande forza lavoro e le sue prospettive rosee.
Di Elizabeth Pisani
Non sai come divertirti nei pomeriggi di pioggia? Prova a prendere un mappamondo gonfiabile e a portarlo in una zona affollata – un centro commerciale, una stazione dei treni –, poi prova a chiedere ai passanti di indicarti l’Indonesia, la quarta nazione al mondo per numero di abitanti.
Io ci ho provato a Londra, New York, Rio. La risposta? «Ehm…»
Un gran grattarsi la testa e strofinarsi il mento. «Lì da qualche parte, mi sembra» e vaghi gesti in direzione dell’Indocina o dell’Asia meridionale.
A Melbourne o Sydney potresti avere maggiore fortuna. Ma anche lì, l’interesse verso l’Indonesia in sé è inesistente. Nelle parole di un editor della Penguin Australia: «Nonostante [l’Indonesia] sia un importantissimo vicino per il nostro Paese, temo che il mercato australiano abbia bisogno di una prospettiva australiana su questo Stato».
Pur essendo il Paese dei superlativi – la nazione con la maggior percentuale di musulmani, uno tra gli utenti più entusiasti di Facebook e Twitter – l’Indonesia rimane, nelle parole dell’uomo d’affari indonesiano John Riady, la maggiore macchia di invisibilità del pianeta.
Questo nonostante broker e uomini d’affari elenchino la giovane popolazione indonesiana, la sua rapida urbanizzazione e l’enorme mercato di consumatori entusiasti come la ragione per cui gli investitori stranieri debbano prestare maggiore attenzione al Paese.
Sento le stesse argomentazioni da quando mi sono occupata dell’Indonesia per la Reuters e l’Economist sul finire degli anni ’80. Nei successivi trent’anni, il reddito pro capite indonesiano è cresciuto vertiginosamente raggiungendo 3.300$, oltre cinque volte il livello di quando abitavo lì.
Alto, certo, ma non tanto quanto in Thailandia o in Vietnam (tra le sette e le otto volte in più), per non parlare della Cina (dove il reddito pro capite si avvicina ora agli 8.000$ l’anno, 26 volte in più del 1985).
Per un Paese che ha simili risorse naturali e abbondanza di manodopera, l’Indonesia è senza dubbio poco efficiente dal punto di vista economico. Questo è dovuto in parte al fatto che le sue 7.000 isole rappresentano enormi sfide in termini di infrastrutture, in parte all’indolenza della burocrazia che soffoca l’innovazione, e in (buona) parte al marasmatico sistema legale indonesiano a causa del quale nessun contratto è sicuro.
Il tanto decantato “dividendo demografico” non raggiungerà il popolo come la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno finché tutte e tre queste condizioni non cambieranno. Ora, per la prima volta da quando la coraggiosa ma impreparata Indonesia ha dichiarato l’indipendenza dai colonizzatori olandesi nel 1945, almeno due di questi cambiamenti sono in atto. Non ci sono conquiste di minima portata in una nazione caleidoscopica come l’Indonesia, dove ci sono tante etnie, lingue e religioni quante isole. I miglioramenti sia nell’infrastruttura che nel governo sono degni dell’attenzione mondiale perché sono spinti in modo congiunto da democrazia e decentralizzazione, entrambi concetti relativamente nuovi per gli indonesiani.
Avendo vissuto per 45 anni in una dittatura virtuale, gli indonesiani sono chiassosamente democratici ed eleggono direttamente chiunque, dal capo del villaggio al Presidente. Alcuni politici allungano ancora mazzette in cambio di schede elettorali, ma i cittadini indonesiani anche dei villaggi più remoti hanno un’acuta percezione dei meandri della politica.
«Pensano che siamo degli idioti, che possono comprare i nostri voti» ha commentato un pescatore di Sulawesi il mese scorso parlando delle campagne elettorali per le distrettuali dell’anno prossimo. «Ovviamente i soldi li intaschiamo da tutti i politici, ma poi votiamo con la testa». Le élite politiche che credono di accaparrarsi il potere per mezzo di corruzione o di un cieco populismo restano spesso deluse, e senza potere.
La rinascita democratica indonesiana è arrivata con quella che molti considerano una seconda ondata di decolonizzazione. Per i primi cinquantacinque anni della sua esistenza, la nazione è stata fermamente comandata dalla capitale Giacarta, in gran parte a beneficio del 60% di indonesiani concentrati nell’isola di Giava.
Il risentimento che questo ha causato ha portato nel 1998 alla caduta del secondo leader del paese, Suharto, dopo 32 anni al potere. È seguito un “big bang” di decentralizzazione che ha trasformato i molti feudi geografici, etnici e culturali da vassalli del governo centrale di Giacarta in democrazie quasi autonome.
Tra i molti voti espressi ora dagli indonesiani, quello che influenza maggiormente le loro vite è per il capo o sindaco del distretto. Ridendo, ci si riferisce a questi boss locali come a “piccoli sultani” perché sono molto potenti: prendono la maggior parte delle decisioni in temi quali istruzione, sanità e infrastrutture locali, distribuiscono lavori e contratti, regolano l’intrattenimento e gestiscono le vie di trasporto, essenziali in una nazione insulare come l’Indonesia. […]
La decentralizzazione ha influito sulla burocrazia colpevole di soffocare l’innovazione, anche se non sempre in senso positivo. In molte aree, i governi distrettuali hanno solo incollato nuovi metodi su un sistema amministrativo disfunzionale.
Ma in alcuni distretti, politici avventurosi hanno sperimentato riforme radicali: richiedono ai funzionari statali di presentarsi in orario, di trattare i cittadini con rispetto, di fare il proprio lavoro senza farsi corrompere. Questi individui sono diventati eroi locali e cocchi dei media: la loro popolarità in molti casi ha rappresentato un trampolino di lancio per cariche più elevate, inclusa la presidenza. L’attuale Presidente, affettuosamente chiamato Jokowi, è passato da sindaco di una cittadina a governatore di Giacarta a presidente solo grazie alla forza del suo approccio razionale al governo locale.
Eppure, né la democrazia decentralizzata né Jokowi stesso sono riusciti a intaccare il terzo maggiore ostacolo al successo indonesiano: quel pantano giuridico a cui il predecessore di Jakowi si riferiva come a una “mafia giudiziaria”.
La magistratura, ancora dolorante dopo la condanna del 2013 a corruzione del più alto giudice del paese, sarà ancora al centro dell’attenzione internazionale, visto che è stata approvata un’indagine per blasfemia che coinvolge il governatore di Giacrta, Basuki Tjahaja Purnama (noto come Ahok).
Se condannato, un processo trasparente e un verdetto equo segnalerebbero l’inizio di concreti miglioramenti nel paesaggio legale. Questo, più di ogni altra cosa, renderebbe l’Indonesia un Paese a cui guardare con impazienza nell’attesa che il suo destino di successo globale si compia.
Elizabeth Pisani, «‘Biggest invisible thing on earth?’ – It’s called Indonesia, and it’s waking up», The Guardian, 21 novembre 2016