Doctor Strange – tagliente umorismo e spiritualità disimpegnata
Come supereroe della Marvel, Benedict Cumberbatch è imprevedibile e intrigante; la sua storia fa esplodere la mente e rafforza un genere.
Di Wendy Ide
Visivamente distintivo, con un cast di classe e quasi sempre coerente, l’ultimo esemplare della scuderia Marvel è una bestia rara, un cinecomic che giustifica ampiamente il ricorso agli effetti speciali. Una storia delle origini di un eroe che fa l’occhiolino a Inception di Christopher Nolan e ricorda l’incanto barocco della saga di Harry Potter. A tratti è tanto efficace nella sua capacità di far esplodere la mente quanto Il serpente di fuoco di Peter Fonda.
Ma, ancora più importante, Doctor Strange è un’entità a sé: un bellissimo e affascinante rompicapo alla Escher. Il regista Scott Derrickson, che ha contribuito alla stesura del film, passa senza sforzo da horror di qualità (The Exorcism of Emily Rose, Sinister) a un film disimpegnato ma temerariamente spirituale. Il copione presenta un certo tagliente umorismo, indirizzando al pubblico battute che a volte si colgono solo dopo un’ora. Ma la conquista più grande di Derrickson è la capacità di incorporare una moltitudine di scemenze cosmiche – piani astrali, terzo occhio e mandala come se piovessero – senza mai ricordare i poster motivazionali dei tossici.
Buona parte del successo del film è legato al cast. Il dottor Stephen Strange, brillante neurochirurgo la cui carriera viene distrutta da un devastante incidente, ha una personalità glaciale e tagliente quanto gli strumenti chirurgici con cui sonda il cervello danneggiato dei suoi pazienti. Quando lo si incontra, ricorda in qualche modo l’altezzosità di un uomo privilegiato quale Tony Stark (Iron Man), ma non ha nulla del suo calore. Eppure Cumberbatch passa dal ruolo dell’eroe inizialmente meno amabile della Marvel a un personaggio imprevedibile e intrigante. La sua disperazione per il danno irreparabile che ha riportato alle mani lo conduce fino in Nepal, all’enclave capitanata da un guru noto solo come l’Antico (Tilda Swinton).
Swinton, inutile a dirlo, è un eccellente mentore per Strange e lo introduce alle arti magiche. Un insegnante zen schietto, con un tocco di crudeltà terrena, che emana autorità e che rafforza il viaggio spirituale del dottore, grazie anche a Chiwetel Ejiofor nel ruolo di Mordo e a Benedict Wong nel ruolo di Wong, che portano cuore e un caustico umorismo alla storia. L’attore danese Mads Mikkelsen, invece, è in qualche modo sprecato come Kaecilius, ex discepolo rinnegato. Con il suo ombretto viola e il sostegno degli zeloti, sembra più il leader di una cover band glam-rock. Inaspettatamente, uno dei personaggi più forti si rivela essere un vestito. Il mantello simbolo di Doctor Strange ha uno strano tempismo e ruba più volte la scena agli attori.
La solidità dell’esecuzione è un’ancora necessaria a cui aggrapparsi nella profusione di effetti visivi che implodono nella nostra mente (non è un caso se Stan Lee fa una comparsa come passeggero del pullman ridacchiando su una copia de Le porte della percezione di Aldous Huxley). Ecco un esempio di film in cui il pubblico in 2D perderà molto: non è solo l’elemento fantasy a sbucare dallo schermo, ma anche il brulicante caos del Nepal ha un effetto sbalorditivo.
Due scene inserite nei titoli di coda suggeriscono cosa possiamo aspettarci dal prossimo appuntamento con il Dottore: è ovvio che la Marvel apprezza la tonificante trasfusione di linfa vitale che questo film le fornisce.
Wendy Ide, «Doctor Strange review – sharp wit and spiritual popcorn», The Guardian, 30 ottobre 2016