Arte di sangue

Produrre arte dal caos pakistano

Di Aatish Taseer

LAHORE, Pakistan – Un tubo di scarico, ostruito da sacchetti di plastica rosa e pieno di acqua nera, separa Bahar Colony, un quartiere cristiano, dal resto della città. Da un lato c’è l’Arfa Software Technology Park, un complesso moderno in espansione di acciaio e vetro verde. Dall’altro, i buchi delle basse case di mattoni sono coperti di stracci. Un cartello recita: “Faith Gospel Assemblies, Lahore”.

Questo è il paesaggio della realtà di Julius John Alam – e della sua immaginazione. Alam è un ragazzo di 26 anni e figlio di un sarto e fa parte della comunità cristiana del Pakistan, circa due milioni di persone in un Paese di oltre 180 milioni di anime. Ma fa anche parte di qualcosa di più grande: rappresenta infatti l’enorme energia artistica creatasi in Pakistan, anche se – e forse proprio per questo – i suoi traumi si sono moltiplicati. Un paio di settimane prima che io lo incontrassi a New York, dove studia presso la Parsons School of Design, una bomba è esplosa il giorno di Pasqua in un parco di Lahore, uccidendo più di 70 persone, molte delle quali donne e bambini che stavano partecipando alla festa.

«I temi di cui mi occupo sono influenzati dalle mie esperienze di cristiano» mi ha detto. L’esperienza cristiana è uno dei traumi di un Paese il cui catalogo di calamità comprende il terrorismo, l’estremismo religioso, la criminalità, i colpi di Stato e i conflitti settari. Questo caos ha ispirato un emozionante caleidoscopio di artisti il cui lavoro è in mostra nelle grandi città del mondo.

«La confusione è una sorta di benedizione, perché non prevede consenso» mi ha detto Quddus Mirza, un altro artista, in una calda mattinata a Lahore. «L’India ha questa cosa chiamata indianità. Qui, invece, non c’è identità alcuna». Che cosa strana da dire: il Pakistan, fondato nel 1947 come patria per i musulmani indiani, una volta ce l’aveva, una forte identità. Ma è stato screditato, in un primo momento attraverso colpi di Stato militari in rapida successione che ne hanno minato i governi civili, e più tardi attraverso il terrorismo, l’insurrezione e l’ingiunzione di allontanarsi da grandi sezioni del Paese.

Ci siamo seduti nell’ufficio di Mirza al National College of Arts, dove è il capo del dipartimento di belle arti. Il bellissimo edificio in mattoni rossi, nel cuore della coloniale Lahore, ha funzionato come un’incubatrice – «un’isola di libertà» per usare le parole di Mirza – per artisti come Alam.

Il National College of Arts è stato il contenitore di una miscela esplosiva di personalità e tradizione. Ha raggiunto ciò che Nadezda Mandel’stam, memorialista russa e vedova del poeta Osip Mandel’stam, descrive in Hope Abandoned [Speranza abbandonata, N.d.T.] come «punto di infiammabilità nell’arte» che «si crea attraverso il contatto tra ciò che è stato accumulato (o concentrato nel sistema circolatorio) nel corso dei secoli e qualcosa che si verifica in un singolo momento di passaggio». Questo ha il potere di «innescare idee nuove e parole mai dette prima».

Il giorno della mia visita, mi sono imbattuto in uno degli alunni più famosi del National College of Art. I dipinti di Imran Qureshi sono stati esposti nei più grandi musei del mondo, tra cui il Metropolitan Museum of Art di New York e la Barbican Art Gallery di Londra. Si tratta di una tradizione del National College of Arts che gli ex studenti, a prescindere dalla loro fama, tornino lì a insegnare, e quando l’ho visto, il signor Qureshi stava andando in classe.

Mi ha raccontato una storia che risale ai suoi anni da studente, quando la sua classe è stata rimandata in blocco perché tutti hanno presentato un lavoro su fogli bianchi identici da 20×30 pollici. «Siamo tutti individui» ha detto loro l’insegnante, «tutti abbiamo il nostro stile». La classe è stato mandata via con la richiesta di tornare con materiali che meglio riflettessero l’individualità di ognuno. Il signor Qureshi è tornato con vecchi giornali Urdu con titoli di violenza e disordini, su cui ha dipinto a carboncino.

L’arte pakistana è inquietante. Uno dei dipinti più famosi del signor Qureshi raffigura alberi spruzzati di sangue. E il lavoro di Alam ha in sé una simile oscurità. Il velo del tempio spezzato in due, una vasca di metallo bianco riempita di vernice a smalto nera, rappresenta la fogna che separa i cristiani di Bahar Colony dal resto della città. Accanto ad essa, come una pietra tombale, c’è un simbolo di rabbia e di angoscia messo a tacere: un rosso e lurido albero di Natale.

Alam aveva visto poca arte prima di cominciare a produrne lui stesso. C’erano molti ragazzi come lui al college, e ciò ha infuso forza e vitalità alla sua arte. La sua influenza principale, salvo un paio di esempi di arte da calendario cristiano, era la vita stessa. «Durante le notti d’estate, quando avremmo dormito sui tetti e ci sarebbero state lunghe ore di black-out, tutto si sarebbe ridotto a forme e ombre» ha detto, tornando con la mente a Bahar Colony. «Non pensavo a me stesso come un artista all’epoca, ma quelli erano i temi a cui sono tornato quando ho cominciato a vedermi come tale».

Due esperienze spiccano nella mente di Alam. Pochi anni fa l’Autorità per lo sviluppo di Lahore ha demolito un numero di case cristiane. Questo, ha detto, lo ha reso consapevole di quella che lui chiama l’«infrastruttura del potere». Ha riconosciuto il tubo di scarico come un «divisorio sociale». L’altro evento si è verificato nel 2014, quando una folla inferocita ha dato fuoco a una giovane coppia cristiana in una località non distante da Lahore. La moglie del signor Alam, così come la donna bruciata viva, era incinta, e ha sentito molto vicino a lei questo orrore.

Gli sconvolgimenti, si sa, fanno bene all’arte. Certamente Mandel’stam, che ha vissuto il terrore staliniano del 1930, e il cui marito, Osip – il più grande poeta russo del secolo scorso – è morto in un campo di lavoro, avrebbe capito ciò che sta avvenendo in Pakistan oggi. Avrebbe dovuto sapere che per le società che devono affrontare livelli disumanizzanti di disagio, l’atteggiamento di sfida di artisti come Alam e la potenza redentrice dell’arte in generale cessano di essere idee romantiche. Diventano una forma di sopravvivenza.


Di Aatish Taseer, «Making Art From Pakistan’s Chaos», The New York Times, 27 giugno 2016

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