Tudormania: perché non riusciamo a smettere?
Di Charlotte Higgins
I Tudor rappresentano ormai una certa tipologia di eccezionalità inglese: l’idea di un’Inghilterra che emerge sulle altre nazioni perché superiore ad esse. Non è una coincidenza, ma esattamente il modo in cui i regnanti della dinastia Tudor si sono presentati. Quando Enrico VIII, primo sostenitore della Brexit, si è divincolato dalla stretta di Roma e dell’Europa cattolica, ha reso necessarie una nuova retorica e una nuova storia. Che sono diventate ancora più urgenti dopo Maria I, responsabile di aver dato una parentesi cattolica alla nazione dopo lo zelo protestante di Edoardo VI.
L’eccezionalità inglese ha avuto inizio sotto Elisabetta I, quando una nuova razza di scrittori – cronisti e antiquari inclusi – si è imbarcata in quella che lo storico John Burrows una volta ha definito «la storia d’amore tra l’Inghilterra e l’inglesità». La storia del passato inglese, scrive, è stata «rinnovata all’insegna del protestantesimo, del patriottismo e della provvidenza».
Se l’Inghilterra elisabettiana ha creato l’immagine che abbiamo di lei, ha in gran parte creato anche l’immagine che abbiamo del suo passato medievale come abisso di sangue e violenza da cui la nazione è emersa verso una nuova età dell’oro.
Oggi gli inglesi non si credono più una nazione eletta. Ma quel senso di superiorità permane: ci appigliamo maggiormente a questo senso ancestrale quando la nazione si sente minacciata. In quei momenti, il discorso di Elisabetta I a Tilbury, mentre incita le truppe pronte a difendere l’Inghilterra dall’attacco spagnolo, riecheggia nell’inconscio della nazione: «So di non avere che il corpo di una donna debole e fragile; ma ho il cuore e lo stomaco di un re, e di un re di Inghilterra, per giunta, e non riservo che sdegno a Parma o alla Spagna, o a qualsiasi principe europeo che osi invadere i confini del mio regno». Quando nel 1940 la BBC ha pubblicato degli estratti del discorso di Churchill, «Combatteremo sulle spiagge», Vita Sackville-West ha scritto al marito di essere stata sconvolta da quelle «frasi elisabettiane».
Perché le seduzioni, la violenza, lo spionaggio, gli intrighi, i corridoi e i sussurri e le cadute da uno stato di grazia ci affascinano? Ma soprattutto perché il sensuale gioco di potere della corte dei Tudor ci ossessiona? Storia accademica, rappresentazioni popolari, finzioni e TV si sono fuse.
Jerry Brotton, docente di studi rinascimentali presso la Queen Mary University di Londra, è stufo dei Tudor – o almeno del modo in cui li si presenta di solito. «Che poi in realtà erano anche gallesi. È una versione idealizzata della storia che sembra voler dire: “Ecco quando eravamo potenti!”. Ma non è vero! Quello che nessuno vuole divulgare è che tutto il periodo dopo la rottura con Roma ad opera di Enrico VIII, negli anni ’30 del 1500, l’Inghilterra era del tutto isolata, uno Stato paria nel resto dell’Europa cattolica. Eravamo come la Romania sotto il controllo sovietico».
Brotton è l’autore di This Orient Isle [Quest’isola orientale, N.d.T.], in cui evidenzia i legami dell’Inghilterra con il mondo islamico in epoca elisabettiana – legami resi necessari dall’auto-isolamento dei Tudor protestanti all’interno della rete politica, diplomatica e commerciale dell’Europa cattolica. La versione dei Tudor che la cultura mainstream ha abbracciato – limitare il quadro a nobili, aristocratici, cortigiani e monarchi – è, come potrebbero spiegare Brotton e gli altri studiosi, tanto limitante quanto ingannevole.
Quello che scegliamo di non dire sui Tudor è rivelatore quanto quello che invece diciamo. Il nostro interesse attuale si concentra attorno alle due figure di potere, Enrico VIII ed Elisabetta I. Enrico VII, anche se oggetto di uno stimato studio recente ad opera di Thomas Penn, non ha mai raggiunto il loro successo. E neppure Edoardo VI o Maria I. Paul Lay, editor della rivista History Today, ha una teoria al riguardo: oltre ad essere stati molto brevi, i regni di questi due monarchi sono inestricabilmente collegati a questioni religiose: sono il re radicale, iconoclastico e protestante e la regina che per un breve periodo ha ripristinato il cattolicesimo. Certo, è stato Enrico VIII a rompere con la Chiesa romana, ma la storia l’hanno fatta più i pruriti e il desiderio verso Anna Bolena che la politica internazionale o la teologia. Lo stesso vale per Elisabetta: la sua gioventù è una miniera di avventure, minacce, pericoli e consistenti poste in gioco – riuscirà o no a salire al trono? Ma «l’ultima parte del suo regno, la parte più interessante, riguarda la crescita del puritanesimo inglese e delle idee sulla provvidenza, assieme al senso crescente che l’Inghilterra sia una nazione eletta, che Dio ha scelto per la grandezza. Tutto ciò sfocia nel secolo successivo nella guerra civile… Purtroppo, però, il sesso e la violenza scarseggiano, e ci sono fin troppi discorsi su idee e fondamentalismo.» Paul Lay aggiunge: «Sono idee difficili da spiegare». Poi si ferma. «No, in realtà non è vero. Ma non c’è abbastanza ambizione tra gli scrittori per descriverle». Questa secolarizzazione, assieme a un certo disagio nei confronti dell’idea di una rivoluzione, spiegano come mai ci occupiamo così poco del secolo successivo ai Tudor, del secolo della guerra civile inglese. Martin Davidson mi ha detto che per lui e i suoi colleghi della BBC i periodi storici hanno una precisa consistenza e servono da «motori della storia» per svariate narrative. «Questo posto e questo luogo che chiamiamo Tudorland, Tudorville, ha ingredienti irresistibili» dice. «Come il sesso che si fa morte passando per intrighi vari… Vorrei poter fare di più sulla guerra civile, a essere onesti. Ma è difficile trovare personaggi accattivanti, e il fatto che abbiano una vita sessuale inesistente non aiuta» continua.
Perché abbiamo trasformato i Tudor in creature mitologiche, e a cosa servono questi miti? In parte è successo perché la storia, come disciplina, è strettamente legata ad altri generi, in particolare alla finzione di varia natura. La cosa risale a molto tempo addietro: il primo storico, Erodoto, avrà anche contestato la versione poetica che Omero ha fornito del passato, ma questo non gli ha impedito di plasmare storie sul passato che sono proprio questo: storie. Le vite dei Tudor, in secoli di rivisitazione, sono diventate malleabili, modellate su schemi archetipici. Questi schemi ci vengono dalle prime forme di dramma e tragedia, direttamente dai greci: l’ascesa e il declino dei grandi, storie tristi sulla morte dei re.
Raccontare Cromwell, dice Mantel, consiste nel descrivere «quanto puoi spingerti oltre nel realizzare il tuo destino. È la storia di un uomo che sale e sale, e la storia di quello che succede quando arriva in cima. La ruota gira e la fortuna cambia. Una grande ascesa, poi il crollo. Può essere l’Agamennone di Eschilo, che vince la guerra di Troia per poi essere ammazzato in bagno dalla moglie. Potrebbe essere Edipo. Per i Tudor la posta in gioco è alta. Fanno sembrare così futile la vita moderna: ad esempio se un ministro combina un disastro deve dimettersi e finisce per trascorrere più tempo con la famiglia. All’epoca di Enrico gli avrebbero direttamente tagliato la testa: ecco il significato di personaggi che vivono sempre e comunque sul filo del rasoio».
Le storie di questi personaggi risuonano al nostro ritmo perché la loro sofferenza è la nostra – capovolgimenti, pessimi matrimoni, amori proibiti – ma in termini assai più ampi. Le loro ascese sono maggiori e così le loro cadute. A ogni comunità serve una mitologia, e mentre la religione che i Tudor hanno inventato sbiadisce, sono gli stessi Tudor quelli cui ci appigliamo nell’immaginazione collettiva. Sono perfetti per noi. La storia della corte di Enrico è quella di un potere assoluto e arbitrario esercitato alla don Chisciotte: è la storia ideale, oggi, per un popolo la cui fiducia nelle forme tradizionali di potere si è prosciugata.
Ecco perché i Tudor continueranno ad ossessionarci anche in futuro, inquietanti compagni del passato. È certamente il passato che desideriamo. Probabilmente è quello che ci meritiamo. Che sia il passato di cui abbiamo bisogno, è tutt’un’altra storia.
Charlotte Higgins, «Tudormania: Why can’t we get over it?», The Guardian, 4 maggio 2016