Perché Putin ama Trump
Di Ivan Krastev
“Vladimir Vladimirovič, la guerra è alle porte?
La domanda compare nella prima scena di Myroporyadok (Ordine mondiale), un documentario-manifesto andato in onda negli ultimi giorni di dicembre sulla televisione di stato russa. E nelle successive due ore il presidente Vladimir V. Putin, aiutato da diplomatici, analisti politici, teorici del complotto e statisti stranieri in pensione, ha provato a dare una risposta.
Nonostante il leader russo si rifiuti di dare l’allarme, il pubblico è comunque convinto che, se nei prossimi mesi non cambierà nulla, la Grande Guerra potrebbe essere imminente. E il Cremlino non fa molto per dissuaderli: alcuni giorni dopo la trasmissione del film, ha svelato la sua nuova strategia di sicurezza interna, in base alla quale la NATO e gli Stati Uniti sono considerati minacce di primo piano per il futuro della Russia.
Myroporyadok è una potente espressione dell’attuale visione del Cremlino. Il mondo è considerato un luogo sull’orlo del collasso, caotico e pericoloso, dove le istituzioni internazionali sono inefficaci, semplici ostaggi delle ambizioni e manie occidentali. Le armi nucleari rappresentano l’unica garanzia della sovranità di uno stato, e la sovranità viene dimostrata tramite la volontà e la capacità di resistere all’agenda egemonica di Washington.
Il documentario si concentra a più riprese sul bombardamento della Jugoslavia, sulla guerra di George W. Bush in Iraq, sull’uso improprio della no-fly zone in Libia ad opera delle Nazioni Unite e sulla continua ingerenza dell’Occidente nella politica domestica degli ex Stati sovietici. Tutto ciò per dimostrare il punto centrale del film: che l’Occidente può continuare a parlare di valori e principi, ma in realtà segue una realpolitik che mira al dominio del mondo intero.
Alcune delle accuse sono pertinenti: gli Stati Uniti hanno un’ampia fetta di responsabilità per la catastrofe nel Medio Oriente. Alcune sono palesemente false: non tutte le rivolte popolari nel mondo nascondono un’operazione segreta della CIA. Ma un po’ tutte le accuse suonano esagerate. L’America, dopotutto, non è così potente né maligna come il Cremlino suppone.
La contraddizione centrale nelle vedute di Mosca sulla politica estera americana è il suo fallimento nel conciliare la convinzione che l’America sia una potenza in declino con la tendenza a spiegare tutto ciò che accade nel mondo come il risultato di azioni di politica estera americana. Washington non riesce a portare stabilità nel Medio Oriente? Oppure l’instabilità della regione è il vero obiettivo della strategia della Casa Bianca? Per quanto può sembrare improbabile, Mosca ritiene vere entrambe le cose.
Fatto ancora più importante, il film è una sfida alla visione ampiamente condivisa di Putin come un realista dal sangue freddo, un cinico che crede soltanto al potere e passa le giornate a studiare mappe militari e controllare il conto in banca. In Myroporyadok scopriamo un Putin moralista arrabbiato che, sulla falsariga di populisti europei e radicali del terzo mondo, vive il mondo attraverso la lente dell’umiliazione e dell’esclusione. In qualità di consigliere vicino a Putin, Vladislav Surkov una volta scrisse: «Assomigliamo ancora a quei ragazzi dei quartieri industriali che all’improvviso si trovano nel distretto degli affari. E di certo ci trufferanno, se continuiamo a ruzzolare all’indietro o a restare a bocca aperta».
Questa esclusione alimenta la sfiducia e la tendenza a vedere il mondo come un dramma familiare costruito attorno ad amore, odio e tradimento. È questa sensibilità, piuttosto che la realpolitik del XIX secolo, a spiegare la politica di Mosca degli ultimi anni.
Le relazioni tra Russia e Turchia offrono un ottimo esempio. Piuttosto che aderire a un qualsiasi realismo di politica estera, il Cremlino sembra aver adottato una politica di sentimentalismo da grande potenza. Fino a due mesi fa, Ankara era l’alleato strategico russo nella lotta per un mondo multipolare. Anche la Turchia covava risentimento, ed è stato l’unico membro NATO a non approvare le sanzioni contro Mosca dopo l’annessione della Crimea. Ankara occupava un ruolo centrale nella diplomazia dell’energia di Mosca.
Ma è bastato che un missile turco abbattesse un aereo russo sul confine siriano per trasformare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan da amico a traditore che «aiuta i terroristi», per citare Putin, apparso personalmente offeso.
Alla base del sentimentalismo della politica estera russa c’è la tendenza a vedere le relazioni tra stati come relazioni tra leader. Questa visione del mondo ad alto tasso di personificazione aiuta a capire come Putin, l’uomo che cerca di sconfiggere l’America, sia un così grande sostenitore di Donald J. Trump, il «leader brillante e talentuoso» che promette di far tornare grande gli USA.
La predilezione di Putin per Trump non ha niente a che vedere con la tradizionale preferenza del Cremlino per i repubblicani. Né ci si può basare che sul fatto che se Putin – un conservatore robusto, di mezza età, amante delle armi e anti-gay – fosse stato un cittadino americano, avrebbe avuto il profilo tipico dei sostenitori di Trump. Né si tratta di mere considerazioni tattiche, ovvero che il folle miliardario spaccherebbe l’America e la farebbe apparire ridicola.
Il curioso entusiasmo di Putin per Trump si spiega piuttosto con il fatto che entrambi vivono in un mondo da soap-opera dominato dalle emozioni piuttosto che dagli interessi. Forse Putin si fida di Trump perché l’imprenditore americano gli ricorda l’unico vero amico che il presidente russo abbia mai avuto tra i leader mondiali, l’ex primo ministro italiano Silvio Berlusconi.
In Myroporyadok si discute a lungo di nuove regole e istituzioni, di Yalta e delle Nazioni Unite. Ma il messaggio è chiaro: in un mondo dove l’ipocrisia regna, ci si può fidare solo degli outsider arrabbiati.
Ivan Krastev, «Why Putin Loves Trump», The New York Times, 12 gennaio 2016