Quando la libertà di parola è troppa…

La generazione Y pensa che indulgenza significhi libertà? Beh, si sbaglia.

L’isteria autoalimentante della generazione Y non permette di impegnarsi in dialoghi costruttivi sul futuro.
Di Will McMahon

L’attuale valanga di materiale ipersensibile e insensato prodotto dalla generazione Y è soverchiante. Internet è saturo di questo rumore bianco. Le nostre news feed sono vittime dello “sdegno” che definisce ora la mia generazione. Interpretiamo la “libertà di parola” come “indulgenza di parola”. Ma soprattutto, vista la sua costante e sempre rinnovata isteria, la generazione Y mina la sua stessa capacità di dibattere in modo attivo e critico questioni significative.

Perché quanto prodotto dalla mia generazione ha questa pecca comune? Tim Urban, autore del famoso blog Wait But Why, definisce la calca fin troppo esplicita della mia generazione come “GYPSY”, “Generazione Y di Primedonne e SuperYuppy”. Urban spiega che, forte delle promesse fatte dalla generazione di sopravvissuti di successo, i baby boomer, la generazione Y si illude di essere unica e capace di fare meraviglie. E queste aspettative irreali ne riducono la capacità di accettare critiche. Se ci si aggiunge poi una piattaforma che collega gente sulla stessa lunghezza d’onda (internet), è facile capire perché la nostra voce sia così forte.

Questa pessima combinazione di estrema sicurezza e dipendenza dall’approvazione dei social media genera lo sdegno, spesso in nome e per conto di qualcun altro, che è lo stimolo per il materiale che produciamo. Ci giustifichiamo con l’idea di “avere una voce” e con il “diritto di esprimersi” e tartassiamo chi esce dai confini smodatamente ristretti di quello che riteniamo accettabile.

Lo scorso Halloween, Erika Christakis, docente a Yale, ha incoraggiato gli studenti in una mail a stare alla larga da costumi “di scarsa consapevolezza e sensibilità culturale”. A causa di questo suo intervento, una fazione di studenti vuole ora farla licenziare. La attaccano con insulti pieni d’odio e le urlano sgradevoli epiteti. Gli studenti si giustificano dicendo che quella mail era “irrispettosa”: l’università avrebbe dovuto rendersi conto che loro (gli studenti) avevano già preso in considerazione la cosa da tempo. Ma datevi una calmata!

Forse, però, la cosa più irritante del rumore della generazione Y è che è reazionario. Di rado prende l’iniziativa e affronta un tema di petto, sceglie invece di starsene dormiente in attesa che qualcuno faccia uno scivolone, per poi attivare la macchina del suono.

Ma per quanto sia brava nell’attacco, la generazione Y eccelle nella difesa di quanto fatto. Internet ne è una prova: accumulare sostegno positivo online, o “like”, difendendo qualcosa o qualcuno è estremamente facile. Attirata forse dalla promessa di affetto digitale, e spaventata da un contraccolpo, la generazione Y quindi non fa altro se non gridare all’ingiustizia a ogni occasione. Spara a ripetizione per accumulare ascolti attraverso una finta cavalleria online.

E non occorre che sia un gesto laborioso come scrivere un articolo. Basta anche solo cambiare la foto del profilo con i colori della bandiera francese.

Una tale reazione emotiva non va condannata, è segno che siamo umani. Se indulge costantemente nelle reazioni emotive di massa, però, la generazione Y non sarà più in grado di riconoscere che l’emotività di rado produce altra emotività, e in tutto ciò la soluzione al problema resta ancora ben lontana.

Prendiamo ad esempio il rifugiato siriano annegato, Aylan Kurdi, e il modo in cui internet l’ha pianto. Le emozioni suscitate da questa fotografia hanno scatenato un’ondata di sostegno affinché l’Europa ospiti i rifugiati africani sulla base di un dovere morale.

Con la generazione Y in testa, il mondo è stato sferzato da un’ondata di sdegno e non sono state forse prese in considerazione alcune domande e soluzioni alternative per una questione tanto complessa. Come ha sottolineato l’autore britannico Douglas Murray, «Le nazioni meglio equipaggiate ad affrontare il problema della migrazione sono quelle che hanno permesso al dibattito politico di andare avanti indisturbato».

La reazione emotiva e il clamore online da essa derivato hanno soffocato la discussione politica e hanno bloccato chi si sarebbe opposto all’immigrazione nel nome della ragione.

È stata una sorpresa per me apprendere che, nonostante quanto suggerisse il rumore online, la maggior parte delle popolazione in Gran Bretagna voleva che il governo accogliesse meno rifugiati, come emerge da un recente sondaggio della BBC. Le loro voci non sono state ascoltate. Sono state soffocate.

Forse è questa la conseguenza principale del rumore creato dalla generazione Y: la sua isteria autoalimentante non le permette di impegnarsi in dialoghi intelligibili, percettibili e costruttivi sul futuro. Se ci lasciamo infettare dalle nostre volubili convinzioni, da un diritto che ci siamo accordati da soli e dal nostro ossessivo bisogno di parlare, il contenuto che creeremo sarà privo di direzione ed efficacia.

In parole semplici, il rumore bianco copre un segnale e fa sì che non lo si distingua dal suono di sottofondo. Diventa un tutt’uno con esso.

Come esseri umani, è la ragione (e non le emozioni) che ci ha permesso di distinguere qual è il segnale e quale il suono. La generazione Y ha una posizione di incredibile responsabilità. La nostra capacità di affrontare le molte questioni che ci si prospettano dipende dalla nostra capacità di comunicare l’un l’altro sulle cose davvero importanti. L’enorme tragedia e il rischio di annegare in un mondo di rumore bianco è che non sapremo più quali sono le cose davvero importanti. È questo quello che vogliamo?

Will McMahon studia legge alla Monash University.


Will McMahon, «Deluded Gen Y mistakes indulgence for freedom», The Age, 15 gennaio 2016

 

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