Europa – Il continente fragile
Viaggio in sette tappe
Di Alexander Smoltczyk
BUDAPEST
L’Europa è attraversata da passaggi e strade scritti nel paesaggio come storie. Ogni passo, una lettera. Alcuni sono più antichi della stampa del libro, alcuni perfino più della lingua stessa.
Nelle Alpi ci sono valichi inizialmente usati dagli animali. Le strade sono l’abitudine di un paesaggio. Possono piacere o no. Sono lì, come sentieri battuti nel verde, e non c’è diritto di passaggio su di loro.
Le tre stazioni di Budapest sono punti nodali delle vie di passaggio moderne.
Chi si mette in viaggio verso l’Europa dalla Siria, dal Pakistan o dall’Afghanistan, arriva con un po’ di fortuna a Buda o a Pest.
Lo storico del Mediterraneo Fernand Braudel ha chiamato le migrazioni “necessità” civilizzatrici. Chi si mette in strada di propria volontà è curioso, flessibile, desideroso d’imparare, più creativo e più capace di improvvisare di un pantofolaio. Senza contare le sue capacità linguistiche.
Forse anche la caduta del muro di Berlino è stata una forma di fuga in massa, una migrazione sul posto. Non sono stati gli ultimi a liberarsi dal vecchio sistema e a trovare la propria strada dopo il 1989.
Per la filosofa Agnes Heller, i flussi migratori contemporanei sono una prova di maturità per l’UE: «L’Europa, contrariamente a Stati Uniti o Svizzera, è una comunità di Stati nazionali, non un’unione di popoli europei. C’è una bella differenza. Perché gli Stati nazionali non possono integrare lo straniero senza assimilarlo».
Agnes Heller parla e pensa in quattro lingue, arrota la R e distribuisce a iosa il suono Ä.
Una piccola, vivace signora di 84 anni, attenta a che i suoi capelli siano a posto e che in tedesco si fa sfuggire una sola imprecisione grammaticale: «Note a piè di pagina! [C’è un errore di pronuncia nella parola plurale tedesca, N.d.T.] Tutto nelle università gira attorno alle note a piè di pagina, e non al pensiero. Agghiacciante!».
È questo che la fa arrabbiare. Più degli adesivi appesi di recente alla porta del suo ufficio: “Ebrei, l’università è nostra, non vostra!”.
Heller ha vissuto sulla propria pelle le grandi tragedie del secolo scorso. Suo padre è morto nelle camere a gas di Auschwitz, lei e sua madre sono state portate in salvo. Heller si è laureata con la leggenda della filosofia Georg Lukács, ha insegnato in Australia, ha ricevuto la cattedra che fu di Hannah Arendt a New York. Il suo appartamento è un moderno edificio sulla riva del Danubio, elegante, con pochi libri e una grande valigia sul balcone. Agnes Heller ce l’ha in mente, quello che le serve. È sempre di fretta.
«L’Europa è proprio un continente difficile» dice. La prima guerra mondiale è stato il peccato originale: «Prima c’era un internazionalismo proletario, una cittadinanza cosmopolita. Poi, nel luglio del 1914, il nazionalismo ha trionfato in meno di due giorni. È iniziato tutto lì. Nessun nazismo, nessuno stalinismo senza la prima guerra mondiale».
Ora si vedrà se l’Europa sarà in grado di riprendersi da questo peccato originale. Una porta che sbatte, un nubifragio nasconde l’altra riva del Danubio nel grigio.
«Omnis determinatio est negatio» dice l’anziana donna. «Spinoza, come sa». Ogni negazione è una determinazione.
«L’Europa non è Verdun né Auschwitz, e questa è un’enunciazione, anche se priva di contenuto positivo». La Francia e la Germania non dovrebbero farsi guerra l’un l’altra in futuro: «Non è poco. Ma in fin dei conti non ci sarà Europa finché rimarranno bambini che non sanno dare una risposta alla domanda: Cosa significa per te essere europeo?». L’identità di base è ancora nazionale, purtroppo.
E cosa risponderebbe lei a questa domanda per bambini?
«L’Europa è il Mediterraneo. Lì ci sono Atene, Roma, Gerusalemme» dice Heller. «Non si può pensare all’Europa senza a Israele e alla Bibbia. La narrativa dell’Europa sono la Bibbia e la storia greco-romana, assieme alle loro istituzioni politiche».
Le tavole della legge di Gortina, quindi, e l’Apostolo Paolo in balia dei flutti davanti a Creta.
LONDRA
Nell’aeroporto di Heathrow, il banco “immigrazione” e “visa UK” ha una fila enorme, che intimidisce e non lascia dubbi: chi arriva qui viene da molto lontano, anche se abita solo a un tunnel di distanza.
Martin Roth si scoccia sempre quando la sua segretaria gli fissa un incontro da Bruxelles con i “gentlemen from oversea”. Seduto nel cortile interno del “Victoria & Albert Museum”, è circondato dal chiacchiericcio dei visitatori. È il direttore. Uno svevo di Leonberg a capo di una delle istituzioni culturali più british. Il “Victoria & Albert” si trova a South Kensington, la Londra di Londra. A ogni angolo il messaggio: questa è la metropoli, e nessun’altra. Roma e Parigi sono musei, Berlino sarà anche sexy ma, seriously, la metropoli è questa.
Gli arabi del Golfo si siedono negli shisha bar, eredi di oligarchi dall’accento costoso, e proprio dietro l’angolo la famiglia di industriali Flick avrebbe fatto costruire un pied-à-terre per un 250 milioni di sterline, a quanto si dice.
Roth si ordina una baguette al formaggio. Dice: «Sono del 1955, ho la stessa età di Frank-Walter Steinmeier, il Ministro degli Esteri. La nostra generazione voleva essere tutto, tranne che tedesca. Non c’erano modelli da seguire. Il mio insegnante di matematica, l’avevano paracadutato ancora 17enne su Montecassino. Era questa la Germania ovest negli anni ’70. Volevamo solo andarcene». Nella Francia del sud, a fumare Gauloises, oltre il Brennero, a Venezia e con l’Interrail in Grecia, con Zorba il greco in formato tascabile nello zaino.
«L’Europa per me è diventata qualcosa di indispensabile» dice Roth. «E lo è ancora».
Nel frattempo sono state date più di un milione di borse di studio Erasmus. Un tedesco che dirige il regale “V&A” e il britannico Ian MacGregor che presto sarà a capo dell’Humboldt Forum nel Castello di Berlino.
«Nello studio, nel lavoro, nelle relazioni, nella cultura: su molti livelli, la gente è più avanti della politica per quanto riguarda l’Europa».
Roth è un uomo di straordinaria, quasi americana, energia. La sua mostra su Alexander McQueen, lo stilista di moda, ha registrato un numero record di visitatori. Il 9 dicembre Roth ha aperto la nuova sezione “Europa”.
«Qui lavoriamo in squadra con decine di nazioni, in decine di lingue» dice. «Qui incontro i figli e i nipoti degli esuli e lavoriamo assieme. Parliamo a tutt’un altro livello dell’Europa che a Milano o Monaco, dal punto di vista storico e nella pratica di tutti i giorni».
Ma l’“Europa” è ancora una categoria logica in un settore dove collezionisti, visitatori e curatori agiscono ormai a livello globale?
«Una volta ho dichiarato pubblicamente che il mercato dell’arte internazionale è una struttura di riciclaggio del denaro. E che noi direttori dei musei siamo i clown ai margini. Non ha protestato nessuno. Solo un clown mi ha inviato una lettera: non voglio insultare la sua categoria professionale.
Alla Biennale di Venezia, uno svizzero ha convertito una chiesa gotica in moschea per il padiglione islandese. Per Roth questa è la dimostrazione della vivacità europea. Un continente che non si definisce in termini geografici, ma per concetti e idee.
«Le mostro qualcosa che in questa collezione rappresenta secondo me l’idea di Europa». Roth finisce la baguette e mi conduce a passi svelti attraverso il flusso di visitatori al primo piano del museo.
Qui c’è la collezione di calchi in gesso. Vi si trovano uno di fianco all’altro il David di Michelangelo da Firenze, le tre Grazie, la colonna traiana divisa in due parti dal Foro Romano. Copie così antiche, che sono coperte da una patina. Roth va nella parte posteriore della sala: «Voilà!». Il portico della cattedrale di Santiago di Compostela. A grandezza naturale, dipinto con arte. La meta di una rete di pellegrini europei molto antica, tra la terraferma e l’oceano: una porta sul mondo.
BRUXELLES
Ci vogliono solo due ore e mezza per arrivare alla stazione nord di Bruxelles dalla stazione di St. Pancras a Londra. In estate per un breve lasso di tempo il quartiere europeo è spopolato, come stremato da Varoufakis e dagli ultimissimi vertici d’emergenza. Da tempo “gli europei”, come li si chiama a Bruxelles, sono tornati. Davanti alla Commissione c’è un pullman di turisti, e ci si fa in fretta un selfie: “Prima del federalismo esecutivo postdemocratico”.
Qualche strada più avanti, di fronte alla Borsa, c’è l’altra Bruxelles, ufficiosa. Alcuni viali sono liberi dal traffico. A Bruxelles la gente usa la piazza della Borsa come agorà. Quando fa abbastanza caldo, quando non c’è uno stato di emergenza, il popolo fa picnic, chiacchiera e si riversa qui. I giocolieri si pavoneggiano, assieme a scrocconi e dandy dal Senegal. Quasi burqa e quasi nudi, nonne in minigonne e, lì in mezzo, immersa lì da qualche parte, una persona che legge.
È come se, fuori dal periodo delle sessioni, si volesse mostrare anche un’altra Europa. Un mix cosmo-cafone di immigrati e “petits blancs”, ribelli dei sussidi sociali, gente che si è imposta una vita e non perché farsi distrarre. Forse tra poco si prenderanno a sberle. Ora gironzolano come liberi cittadini. Così diversi e così simili a quelli che molto tempo prima di loro stavano nell’agorà di Gortina.
Se possibile, entrambe le Bruxelles sono una città. Questo brulichio e quella UE-Europa così discosta. Perché senza tutte le sessioni non ci sarebbero confini aperti. Senza gli incontri delle delegazioni non ci sarebbe uguaglianza davanti alla legge, né possibilità di scelta tra prodotti e progetti di vita.
Uno è un compromesso arresosi alle clausole, l’altro il compromesso vissuto come scambio quotidiano, molesto.
La parola “Europa” dovrebbe essere composta da eurys e ops: ampio sguardo. Esattamente il contrario di quello che si compie oggi nel nome di questo nome.
Ma tutte le trattative e dichiarazioni dei ministri possono solo farci saltare i nervi perché ci riguardano. Perché si tratta di politica interna europea senza ministero degli affari esteri.
Quando mai a Breslavia ci si era dovuti interessare ai rapporti di maggioranza del Parlamento di Atene? È un nostro problema, ora. Ogni sessione a Bruxelles o a Strasburgo, anche quelle mancate, servono a tessere una tela. «Omnis negatio confirmatio», direbbero Baruch Spinoza e Agnes Heller. Ogni negazione è una determinazione.
[continua]
Alexander Smoltczyk, «Europa – der zerbrechliche Kontinent EINE REISE IN SIEBEN STATIONEN», Der Spiegel,
Fotocredits: Alexander Smoltczyk, Justin Jin/DER SPIEGEL, AFP, AP, Corbis, dpa, Getty images, imago, imago/Westend61, Reuters
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