Ve lo so dire io come si sente Adam Goodes. Ve lo saprebbe dire qualunque indigeno.
Isolati nella terra dei nostri avi, costretti ai margini di una società ricca – date pure le vostre spiegazioni, ma per noi c’è solo la razza negli attacchi contro Adam Goodes, giocatore dell’Australian Football League.
Di Stan Grant
Mi sono chiesto a lungo se parlare o meno di Adam Goodes.
Di solito tendo a cercare un compromesso, sono diplomatico. In parte, la colpa è di Adam. Forse non doveva essere così provocatorio. Razzismo? Può essere. O può essere che lui semplicemente alla gente non piaccia.
Sì, potrei sostenere questa tesi. Ma ci sono già altri che lo fanno abbastanza, e con veemenza.
Ecco cosa posso fare io. Posso dirvi com’è la situazione per noi. Posso dirvi come si deve sentire Adam, perché anch’io mi sento così. Perché ogni indigeno che conosco si sente così.
Forse non sarà quello che volete sentire. Gli australiani sono orgogliosi della loro tolleranza, eppure restano basiti quando si parla di razza e si mettono spesso sulla difensiva.
Forse sono troppo sensibile. Forse vedo insulti dove non ce ne sono. Forse la mia attuale posizione di successo e privilegi relativi avrebbe dovuto lenire le profonde ferite del razzismo e il dolore di crescere da indigeno in Australia. Lo stesso potrebbe valere per Adam. E magari è giusto così.
Ma è così che l’Australia ci fa sentire. Isolati nella terra dei nostri avi, spinti dalle maree della storia ai margini di una delle nazioni più ricche e di comprovata pace, sicurezza e razionalità al mondo.
La “ricchezza del suolo” che vantiamo nel nostro inno resta al di fuori della nostra portata. Il fatto che ci posizioniamo in fondo a ogni indicatore socioeconomico cozza tragicamente con il miracolo economico australiano.
“Australiani, rallegriamoci” sono parole vuote per noi. Il nostro è un patriottismo tormentato. La nostra lealtà nei confronti dell’Australia, il nostro orgoglio nazionale sono invalidati dalla cupa realtà delle nostre esistenze.
Il seme del sospetto e della sfiducia viene piantato presto nei bambini indigeni. Le storie di sofferenza, umiliazione e razzismo raccontate a genitori e nonni alimentano un’identità che stenta a riconciliare l’orgoglio per le proprie tradizioni con la desolata realtà di una vita di sconfitte.
Da quando ero bambino, ho spesso storto il naso contro la mia razza. Essere un aborigeno significava vergognarsi. Vergognarsi della povertà. Vergognarsi dei vestiti di seconda mano con l’odore incorporato di naftalina e il nome di qualcun altro sul colletto della camicia.
Vergognarsi perché mia mamma e mia nonna dovevano andare dalla Smith Family o all’Esercito della Salvezza per chiedere buoni pasto. Vergognarsi delle cipolle e della carne macinata che mangiavamo troppo spesso.
Ci vergognavamo del relitto imbastardito di quella cultura cui eravamo ancorati. Non era il Tempo del Sogno. Erano cani spelacchiati e finestre rotte.
Come la famiglia Goodes, anche noi ci siamo trasferiti costantemente alla ricerca di un lavoro per mio padre. Ma ovunque andassimo, il nostro posto era sempre ai margini. Quella parvenza di orgoglio che avevamo era distrutta dopo uno sguardo irrisorio o una battuta nel cortile della scuola.
Eravamo i neri. Facilmente riconoscibili non solo per il colore della pelle, ma anche per l’odore di disperazione e pericolo in cui ci avvolgevamo. Il risentimento, spesso lo rivolgevamo a noi stessi, mettendo in piedi zuffe selvagge e forsennate che dal cortile della scuola mandavano il messaggio: state alla larga dai neri.
C’era umorismo e c’era amore e c’era la sopravvivenza. E mentre crescevo ho messo insieme i pezzi della verità: non l’avevamo scelto noi tutto quello. Noi siamo i detriti della brutalità di frontiera australiana.
Mentre l’Australia accoglieva ondate di migranti e costruiva una società ricca, eterogenea, tollerante, noi restavamo un residuo di quello che era andato perso, che era stato preso, che era stato distrutto per permettere di costruire una nazione prospera.
Siamo sopravvissuti a chi voleva “sprimacciare il cuscino del moribondo” [venivano così definite le politiche tardive atte a salvaguardare la popolazione aborigena ormai quasi scomparsa, ndt] per finire sul gradino più basso della scala dell’assimilazione. Troppi sono ancora lì. Basta vedere le statistiche: salute, alloggi e istruzione peggiori, minore aspettativa di vita, maggiore mortalità infantile. Un giovane indigeno ha più probabilità di essere incarcerato che educato.
Se una buona stella o buoni geni fanno sì che tu sia tra i pochi eletti a trovare una via di fuga, allora hai di fronte una scelta: “seguire la corrente”, farti gli affari tuoi, accontentarti di quello che hai e nasconderti nel comfort del sogno australiano; oppure infondere il tuo successo di indignazione e correttezza e pretendere che lo Stato non distolga lo sguardo dalle sue responsabilità e dalla sua storia.
Io ho trovato la mia strada nell’istruzione e nel giornalismo. L’amore per la conoscenza e la curiosità mi hanno spinto avanti con rabbia. La profonda conoscenza della storia, della politica e dell’economia mi ha lasciato amareggiato per le nostre sofferenze.
Combatto con quella rabbia come il bambino che ero combatteva con la vergogna. Voglio vedere il bene di una società che fa un passo indietro di fronte alla storia, di fronte a come ha trattato la mia gente.
È l’eredità di mio nonno, che si è offerto di andare in guerra per una nazione che non riconosceva la sua umanità e men che meno la sua cittadinanza. È l’esempio di vita di mia mamma e mio papà, dei miei zii e zie. Vite di decoro e duro lavoro e responsabilità, radicate nella nostra identità di indigeni australiani.
Quando avevo 16 anni ho trovato il coraggio di parlare alla mia classe. In quanto unico indigeno, l’unico aborigeno che i miei compagni avessero conosciuto, volevo raccontare la storia della mia famiglia. La mia insegnante era orgogliosa e incoraggiante. Quando la classe è tornata dopo pranzo, le parole “Fate i bravi con gli abo” erano scarabocchiate sulla lavagna.
Il rifiuto e l’umiliazione mi hanno trafitto nell’intimo.
Questo è anche il percorso di Adam Goodes. Un uomo il cui talento fisico l’ha spinto avanti e gli ha dato una piattaforma disponibile per così pochi, e il cui coraggio va usato per parlare a tutti noi.
I fatti recenti hanno spinto Adam a ricercare una conoscenza maggiore della storia della sua gente, per sfidare stereotipi e percezioni sbagliate. Gliene ho parlato. E riconosco in lui quella stessa spinta che vedo in me stesso. Ho avuto la stessa conversazione con così tanti fratelli e sorelle indigeni.
È un comportamento raro, in particolar modo per un calciatore. A volte ha fatto passi falsi, e la sua rabbia nei confronti della nostra storia e il suo orgoglio per la sua identità sono stati provocatori, controversi.
Nel 2013, quando ha contestato una tredicenne che gli muoveva insulti a sfondo razziale, ha aperto ferite che non hanno fatto che ingrandirsi. Per alcuni, la ragazza è stata ingiustamente svilita. Quest’anno, con la sua danza di guerra, Adam ha sfidato e spaventato alcune persone. Il suo talento, il modo in cui gioca, gli fa alienare altra gente.
E adesso questo, un crescendo di fischi. La tesi razziale di alcuni sostiene l’odio, per quanto definito in termini diversi, di altri.
Alle orecchie di Adam, le orecchie di così tanti indigeni, quei fischi sono un grido di umiliazione. Un grido che riecheggia attraverso due secoli di invasione, espropri e sofferenze. Altri analizzano le parole usate cercando spiegazioni diverse, ma noi vediamo razza e solo razza. Come possiamo vedere altro, quando la razza è quello a cui siamo rimasti ancorati anche se è stata usata come strumento per emarginarci?
Io ho trovato rifugio al di fuori dell’Australia. I miei molti anni di lavoro in Asia, Medio Oriente, Europa e Africa mi hanno liberato. Qui c’erano i problemi di altre persone, altre terre. Qui era un osservatore, libero dalle pastoie della storia del mio stesso Stato.
Mi chiedo ancora se non sarebbe più semplice andarmene di nuovo.
Ma la gente – Adam Goodes, altri sportivi indigeni e donne che lo sostengono, i suoi compagni di squadra e i rivali non indigeni che sono dalla sua parte, e mia moglie non indigena, i miei figli e i loro amici di tutti i colori e le persone di buona volontà che non hanno le risposte ma vogliono continuare a farsi domande su come migliorare… forse è per loro che vale la pena restare.
Stan Grant, «I can tell you how Adam Goodes feels. Every Indigenous person has felt it», The Guardian, 30 luglio 2015