Nasi rotti, stampelle e tredici chili di noci. Ovvero, l’accordo sul nucleare.

Diciotto giorni a Vienna: come è stato realizzato l’accordo sul nucleare iraniano

Di Julian Borger

Per fare in modo che venisse siglato a Vienna lo storico accordo sul nucleare, il governo austriaco era pronto a tutto pur di far sentire a loro agio i negoziatori nello sfavillante hotel Palais Coburg, compreso pagare le loro spese. Gli austriaci hanno messo gratuitamente a disposizione il marchio di fabbrica del Paese, i wafer, e le praline di cioccolato di Mozart. Hanno tenuto brunch lussuosi e organizzato colazioni, pranzi e cene a buffet ogni giorno.

Nonostante l’enorme profusione di haute cuisine locale, molti membri della delegazione hanno ripiegato sui comfort food del proprio Stato di provenienza per resistere alle lunghe notti e giornate di trattative. Gli iraniani avevano uvetta verde e pistacchi. Gli americani più di 4,5 kg di caramelle Twizzler alla fragola, 9 kg di snack al formaggio e 13,5 kg di noci e uvetta. Ogni volta che la delegazione britannica, con a capo il Segretario di Stato per gli affari esteri Philip Hammond, tornava a Londra, si presentava poi a Vienna carica di biscotti di Marks & Spencer. Un giorno i francesi hanno testato la munificenza dell’hotel con un raid alle famose cantine di vino di Coburg, per trovare qualcosa di speciale da bere a cena.

Nonostante le comodità di Coburg, i 18 giorni di trattative sono stati una sfida estenuante per i negoziatori, in buona parte ultrasessantenni e afflitti da un numero crescente di acciacchi. Come se non bastasse, le temperature medie dell’estate viennese si sono alzate, dando l’impressione che l’impianto di aria condizionata dell’hotel non avrebbe potuto reggere a lungo.

Di tanto in tanto, il malumore prendeva il sopravvento. A un certo punto, Mohammad Javad Zarif, ministro degli esteri iraniano, si è stufato del moralismo degli uomini e delle donne sedute attorno al tavolo, e non ci ha visto più.

“Vi dovrei portare tutti davanti alla Corte Internazionale, dopo aver sostenuto Saddam Hussein!” ha esclamato. Si riferiva alla brutale guerra tra Iran e Iraq svoltasi trent’anni prima, in cui Saddam, sostenuto dall’Occidente, aveva impiegato armi chimiche su larga scala contro gli iraniani, causando 100.000 vittime tra morti e menomati. Eppure anche dopo quel trauma, la fatwa dell’ayatollah Ruhollah Khomeini di non ricorrere ad armi di distruzione di massa è stata mantenuta, e il programma iraniano di produzione di armi chimiche è stato sospeso.

L’esperienza ha plasmato l’atteggiamento dell’Iran e il suo approccio ai negoziati. Zarif ha ribadito spesso che l’Iran non deve essere più trattato come uno Stato canaglia dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. E che le sanzioni economiche, l’embargo sulle armi e le restrizioni sui missili vanno tolte.

D’altro canto, però, l’Iran ha fornito armi alla milizia di Hezbollah in Libano prestando la propria potenza di fuoco al regime sanguinario di Assad in Siria. L’Occidente non avrebbe nemmeno preso in considerazione l’idea di togliere l’embargo sulle armi. A Vienna, l’impasse legata alle armi convenzionali minacciava di mandare a monte un accordo storico sulle armi nucleari.

Nei giorni precedenti l’annuncio dell’accordo, lo scontro in merito a questo embargo e alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che lo contemplava hanno portato i negoziati sull’orlo del fallimento. Federica Mogherini, alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, ha dichiarato che i negoziatori occidentali se ne sarebbero andati. Zarif, avvertendo che si trattava di una minaccia a vuoto, ha detto: “Non minacciare mai un iraniano”. Il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, sostenitore di Zarif per quanto riguarda l’embargo, ha aggiunto: “Nemmeno un russo”.

Il commento è stato reso noto in fretta dalla delegazione russa. Era cucito su misura per descrivere Lavrov come un accanito nazionalista. Gli iraniani, dal canto loro, non avevano obiezioni a che la storia fosse divulgata. Avrebbe mostrato che Zarif difendeva la dignità nazionale e l’avrebbe aiutato, dopo aver siglato l’accordo, a difendersi dagli attacchi dei più intransigenti.

La Mogherini ha liquidato l’incidente con leggerezza, dichiarando alla CNN: “Non ci si può aspettare che un negoziato italo-iraniano sia freddo. Credo faccia parte della nostra cultura… A volte ci scaldiamo un po’. Ma il rispetto reciproco è sempre presente.”

L’espressione “rispetto reciproco” è risuonata tra vari ministri e diplomatici a Vienna. Durante le trattative a Coburg, dopo quasi due anni di intensi scambi diplomatici seguiti all’ascensione al potere a Teheran del governo riformista di Hassan Rouhani, la causa comune di un accordo ha fornito loro un collante contro gli attacchi dei più radicali negli Stati Uniti, in Iran e in Israele.

Ma se potevano ignorare le voci dei critici, non potevano ignorare i loro leader. Sia il capo supremo dell’Iran, Ali Khamanei, sia il Presidente americano Barack Obama sono intervenuti direttamente nei negoziati per mantenere l’equilibrio. Il discorso di Khamanei del 23 giugno, con le sue posizioni di diniego su alcuni punti, è la ragione per cui Zarif a volte aveva le mani legate.

Allo stesso modo, la squadra di negoziatori statunitense, guidata dal Segretario di Stato John Kerry, è emersa da una videoconferenza con Obama e lo staff della sicurezza nazionale mercoledì 8 giugno con una posizione più severa su alcuni punti, stando a un funzionario iraniano che ha rilasciato una dichiarazione il giorno seguente.

In vista degli intensi negoziati necessari per ottenere un accordo e delle tremende pressioni che sarebbero inevitabilmente seguite, gli alleati americani avevano temuto gravi conseguenze nell’apprendere dell’incidente in bicicletta che aveva coinvolto Kerry a maggio.

Non era solo il fatto che avesse le stampelle. Per usare le parole di un diplomatico, “era come se gli avessero risucchiato le energie”. Negli incontri precedenti, Kerry era stato un anfitrione vigoroso, sempre in giro per la stanza a dare pacche sulle spalle e a dare il la alle discussioni. A Vienna, entrava zoppicando nella stanza e cercava la sedia più vicina su cui mettersi, mostrando all’improvviso i suoi 71 anni.

Kerry non è stato l’unico ministro sofferente, durante le trattative. La negoziatrice americana Wendy Sherman si è rotta il naso e un dito durante i negoziati. Il capo dell’organizzazione per l’energia atomica iraniana, Ali Akbar Salehi, si stava riprendendo dopo aver subito un intervento per un intestino perforato.

Ma gli acciacchi di Kerry hanno avuto l’impatto maggiore. Mentre zoppicava fino al leggio davanti alla stampa accampata di fronte a Coburg, si vedeva che non aveva la sicurezza di un tempo. Più i giorni passavano, più seguiva l’esempio dei ministri più introversi e si faceva accompagnare all’ingresso posteriore dell’hotel.

Fingere sarebbe stato difficile a Vienna, una città così stracolma di storia da condizionare il presente. Lo stesso hotel neoclassico in stucco bianco è un’incarnazione del passato imperiale austriaco. La piazza in cui sorge prende il nome del padre del sionismo, Theodor Herzl, un elemento a dir poco scomodo per la delegazione.

A 100m circa da Coburg, l’Imperial hotel in cui alloggiava Kerry una volta aveva ospitato Hitler, una sfortunata coincidenza in vista della campagna condotta dal primo ministro israeliano, Binyamin Netanyahu, per presentare l’accordo nucleare come un tradimento degli ebrei.

La complessa storia di Vienna ha fatto sì che né gli americani né gli iraniani fossero contenti di concludere le trattative in quella città, ma altri fattori hanno compensato il loro nervosismo. Assieme alla generosità austriaca, la città è il quartier generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), che avrebbe agito da arbitro nell’implementazione dell’accordo.

I 18 giorni a Vienna si sono dimostrati una delle più epiche maratone diplomatiche dei tempi moderni. Alla fine, i ministri e i diplomatici sono emersi esitanti nella luce del giorno solo martedì mattina, alcuni per la prima volta dopo una settimana. Si sono lasciati alle spalle corposi scontrini in favore del governo austriaco. Ma, come i diplomatici amano sottolineare, i negoziati pacifici sono sì costosi, ma molto più economici dell’alternativa.


Julian Borger, «Eighteen days in Vienna: how the Iran nuclear deal was done», The Guardian, 14 luglio 2015

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