A 70 anni dal trauma di Auschwitz, cosa abbiamo imparato?
Guerra, ideologia jihadista, pulizia etnica… gli incubi che hanno fatto seguito all’Olocausto mostrano che non abbiamo ancora imparato la sua lezione
Di Ephraim Mirvis
Ephraim Mirvis ricopre il ruolo di capo rabbino britannico, la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna [ndt].
Domani [oggi, ndt] si celebra il 70esimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau. A moltissimi anni di distanza dalla scoperta del più grande crimine nella storia dell’uomo, sembra che il mondo non si sia ancora ripreso dallo shock.
Etica, politica e psicologia sono tutte molto più difficili da capire ora che conosciamo gli abissi in cui la natura umana può sprofondare. La scoperta dei crimini del nazismo mise sotto i riflettori la brutalità di ideologhi che si credevano dei superuomini, al di sopra di ogni limite morale. Il bagliore di quella verità spaventosa ha portato molti a nascondersi e altri a inoltrarsi nel bispensiero della negazione.
Le reazioni di chi scoprì Auschwitz, i poveri soldati che arrivarono per primi nel campo, sono significative. Alcuni rimasero in silenzio, altri non ci riuscirono. Alcuni furono così traumatizzati da quello che videro da non riuscire a condividere la loro esperienza. Altri scattarono delle fotografie e le diedero al resto del mondo.
Allora giornalisti, investigatori, procuratori, ricercatori, storici, teorici, registi di documentari e intere generazioni, a turno, hanno cercato di dare una risposta appropriata alla testimonianza dei sopravvissuti e alla vista di camere a gas, forni crematori, baracche per schiavi, esperimenti medici e fosse comuni.
Nel gennaio 1945 – un fatto che fa rabbrividire – alcuni lettori di quotidiani conoscevano già i dettagli provenienti da Auschwitz, poiché orrori simili erano già stati riscontrati nel campo di Majdanek nel luglio 1944. Non erano più una novità.
Ora sappiamo che chi sopravvive a dolori e a traumi estremi tende ad avere incubi e flashback, e a soffrire di stress traumatico secondario (compassion fatigue) e senso di colpa.
Purtroppo gli incubi mondiali che hanno fatto seguito alla scoperta dell’Olocausto hanno compreso diverse guerre e la continua minaccia di catastrofi globali nucleari, chimiche e biologiche. Abbiamo visto diffondersi assolutismi non meno aggressivi del Terzo Reich, come le ideologie jihadiste, la pulizia etnica, i tentati genocidi dei bosniaci da parte dei serbi, dei Tutsi da parte degli Hutu in Ruanda, di 1,7 milioni di cambogiani da parte dei Khmer Rossi, e dei non-arabi del Darfur da parte dell’esercito sudanese e dei janjaweed.
Molti esempi di giudizi sbagliati, autoinganno e codardia morale nelle politiche del dopoguerra potrebbero derivare dall’inabilità dei leader nazionali e delle istituzioni transnazionali di far fronte alle lezioni che l’Olocausto avrebbe dovuto insegnarci.
Quando si tratta di difendere gli oppressi, evitare le aggressioni, frenare gli eccessi dei despoti, stroncare la vittimizzazione dei capri espiatori, ridurre la povertà o prevenire i genocidi, la comunità internazionale ha ancora molta strada da fare.
La responsabilità delle lezioni dell’Olocausto è nostra. Poiché il numero dei testimoni ancora in vita va assottigliandosi, abbiamo un compito sacro: i figli di oggi saranno i nonni e i bisnonni del futuro. Vogliamo che continuino a raccontare questa storia fondamentale per far sì che una cosa simile non capiti mai più.
Senza dubbio le vittime principali della soluzione finale furono gli ebrei. Affermarlo non significa minimizzare o disonorare le tremende sofferenze di rom, disabili, omosessuali o dissidenti politici, anch’essi vittime della macchina da guerra nazista. Perfino chi non era considerato un obiettivo dei nazisti soffrì terribilmente. Le cicatrici delle vittime del Terzo Reich e delle loro famiglie si estendono per anni e sono tangibili ancora oggi. È importante riconoscere che i compatrioti delle vittime ebree soffrirono molto, e ricordare con rispetto e gratitudine i sacrifici compiuti da chi combatté il nazismo. Le nazioni che persero milioni di cittadini innocenti (tra cui 1,5 milioni di bambini nell’Olocausto e molti altri nelle varie guerre) subirono danni permanenti.
La scorsa settimana Theresa May ha ricordato che «senza i suoi ebrei, la Gran Bretagna non sarebbe la Gran Bretagna», riprendendo un’affermazione del primo ministro francese, Manuel Valls, sulla Francia e gli ebrei che ci vivono. Un terzo della comunità ebraica mondiale è stato sterminato nell’Olocausto. Senza la presenza e la partecipazione di quegli ebrei, l’Europa ha perso per sempre un elemento cruciale e impagabile della sua identità.
Per la maggior parte degli ebrei, ovunque essi scelgano di vivere, il ripristino della nazione ebraica nella terra promessa di Israele è l’unica scintilla di riscatto ad emergere dalle ceneri dell’Olocausto. Non è stato possibile ripristinare le vite dei singoli individui, né, in molti casi, sanare le ferite degli afflitti. Ma dalla valle delle ossa secche è nata una nuova speranza, che spinge un’intera nazione a rinascere e ricostruirsi. Per molti ebrei, nel corso dei 70 anni passati dal trauma di Auschwitz, la possibilità di alimentare e nutrire quella speranza è stata la terapia più efficace.
Ephraim Mirvis, «In the 70 years since the trauma of Auschwitz, what have we learned?», The Guardian, 26 gennaio 2015