Colpi di stato e transizioni pacifiche: come si sale al potere in Africa?
Di Aline Leclerc, Maxime Vaudano e Madjid Zerrouky
In Burkina Faso un’insurrezione popolare ha spazzato via il regime di Blaise Compaoré, che cercava di allungare arbitrariamente la propria carica. Dopo 27 anni al potere, il Capo di Stato sperava che con l’ennesima modifica della Costituzione avrebbe potuto eseguire un quinto mandato.
Alla fine di ottobre, però, il popolo, l’opposizione e l’esercito gliel’hanno impedito: un ufficiale, il tenente colonnello Isaac Zida, si è autoproclamato Capo di Stato e lunedì 17 novembre è stato designato un Presidente di transizione – preso tra le fila dei civili, questa volta – che accompagnerà il Paese alle elezioni del novembre del 2015. Michel Kafando, questo il suo nome, assumerà il potere venerdì [21 novembre, N.d.T.].
La situazione in Burkina Faso ha certo aspetti singolari, ma nel continente africano è seguita con attenzione sia dagli inquilini dei palazzi presidenziali sia da chi vorrebbe sfrattarli. E infatti gli avvenimenti di Ouagadougou hanno riscontro in diversi stati africani.
Piccoli e grandi aggiustamenti alla Costituzione
Nel 2010 il Presidente del Niger, Mamadou Tandja, al potere da undici anni, era stato rovesciato con un colpo di Stato militare dopo aver sciolto il Parlamento e la Corte costituzionale e aver fatto adottare, tramite un referendum, una riforma della Costituzione che gli permettesse di restare al potere tre anni in più rispetto a quanto previsto dal suo mandato.
Lo shock degli eventi di Ouagadougou ha già scosso un Paese vicino al Burkina Faso, il Benin, dove da ottobre i manifestanti richiedono quelle elezioni municipali rinviate sine die dal 2013; ciò nonostante, il Presidente beninese, Thomas Boni Yayi, giura di non voler toccare la Costituzione. D’altro canto, sono quattro i Capi di Stato africani che avrebbero intenzione di seguire l’esempio dell’anziano governatore del Burkina Faso, Blaise Compaoré, e restare al potere modificando il proprio mandato o aggiustando qua e là la Costituzione:
- Pierre Nkurunziza in Burundi;
- Joseph Kabila nella Repubblica Democratica del Congo;
- Paul Kagamé in Ruanda;
- Denis Sassou Nguesso nel Congo-Brazzaville.
Denis Sassou Nguesso è salito al potere per la prima volta nel 1979 e da quel momento è stato sempre in carica – tranne negli anni dal 1992 al 1997 – grazie agli scrutini boicottati da una parte dell’opposizione. Secondo diverse fonti il settantunenne Nguesso spera di far adottare una nuova legge fondamentale con cui aggirare la Costituzione, che al momento gli vieta di ricandidarsi alle elezioni del 2016.
E fa bene a sperare, visto che la manovra finora ha avuto successo: dei 54 Capi di Stato africani, 8 sono riusciti a mantenere la loro carica grazie a una modifica della Costituzione.
È il caso di Angola, Camerun, Ciad, Uganda e Algeria. Nel 2008, il Parlamento algerino ha abrogato per alzata di mano la legge con cui si limitano i mandati a un massimo di due, permettendo in questo modo al Presidente Abdelaziz Bouteflika, eletto nel 1999 e poi nel 2004, di ripresentarsi nel 2009 e una quarta volta nell’aprile del 2014, quando lo scrutinio è stato ribattezzato «inganno» dall’opposizione. Da allora, Bouteflika ha lanciato una revisione della Costituzione per ripristinare il limite di due mandati, un impegno preso nel 2011 per calmare gli animi all’inizio della primavera araba che ha scosso l’Algeria.
Un regime che si è concluso con un colpo di Stato
Non di rado nel continente africano un colpo di Stato culmina in un cambio di regime: è stato con un colpo di Stato, infatti, che quattordici Presidenti africani hanno dovuto lasciare il potere, mentre solo dodici hanno tranquillamente concluso il loro mandato prima di cedere il posto a un successore. Altri dodici sono morti in carica. E tre sono stati cacciati a seguito di una rivolta popolare, nel quadro della primavera araba del 2011: Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubarak in Egitto e il colonnello Mu’ammar Gheddafi in Libia.
È vero che alcuni di questi colpi di Stato risalgono agli anni ’80 e che i loro autori sono poi rimasti al potere – a volte, come nella Guinea Equatoriale, dove Todoro Obiang Nguema è al potere dal 1979, con l’aiuto di pseudo-elezioni – ma altri sono recenti: è il caso della Repubblica Centrafricana (2013), del Mali e della Guinea-Bissau (2012), del Niger (2010), della Mauritania e della Guinea (2008).
Elezioni democratiche dopo un colpo di Stato?
In Burkina Faso serviranno solo tre settimane perché l’esercito, che si era assunto «le sue responsabilità per evitare il caos» dopo le dimissioni di Blaise Compaoré del 31 ottobre, si appresti a passare il testimone a Michel Kafando, un Presidente di transizione scelto tra i civili. Il futuro ruolo dei militari nel suo governo è fonte di dibattito, ma questo nuovo esecutivo ad interim ha il solo obiettivo di preparare il Paese alle elezioni generali che si terranno nel novembre del 2015.
Se la situazione del Burkina Faso non si può paragonare a un colpo di Stato in senso stretto, la storia recente di svariati Paesi africani ci insegna che a volte un putsch può essere seguito da elezioni libere e trasparenti.
Prendiamo il Mali. Nel 2012 l’esercito ha spazzato via il regime del presidente Amadou Toumani Touré, al potere da dieci anni, ma la giunta ha ceduto alle pressioni internazionali e ha reso il potere a un Presidente ad interim che ha governato fino alle successive elezioni del 2013. Quindi è stato eletto Presidente «in tutta calma e sicurezza» – stando al Ministro degli affari esteri francese – Ibrahim Boubacar Keïta, con uno scrutinio che, secondo il rappresentante speciale dell’ONU in Mali, «dovrebbe rendere fieri i maliani».
La stessa cosa è successa in Guinea: i militari che avevano preso il posto di Lansana Conté, Presidente da 24 anni, nel 2010 hanno passato il testimone a un antagonista storico, Alpha Condé, dopo il primo scrutinio «libero e democratico» nella storia del Paese. E nel gennaio del 2011 anche lo scrutinio con cui Mahamadou Issoufou è salito al potere in Niger, un anno dopo il colpo di Stato portato avanti da Salou Djibo contro Mamadou Tandja, ha ricevuto il benestare della comunità internazionale.
È altrettanto vero, però, che se le elezioni possono essere un indice di democrazia di un Paese, possono anche essere uno strumento con cui i regimi più autoritari legittimano il loro potere.
La metà delle volte in cui si organizza uno scrutinio presidenziale, gli oppositori e gli osservatori internazionali ne mettono in dubbio la validità perché sospettano frodi, violenze o impedimenti ad hoc. Nel 2011, a Gibuti, l’opposizione ha denunciato la repressione violenta delle manifestazioni che chiedevano l’allontanamento del «dittatore» Ismaël Omar Guelleh e ha poi boicottato lo scrutinio. Poco prima delle votazioni, grazie a una modifica della Costituzione, il dittatore, all’età di 67 anni, aveva ottenuto la possibilità di ripresentarsi alle elezioni per un terzo mandato.
Alcuni sono al potere da più di trent’anni
Un terzo dei Capi africani supera i 70 anni. Il più vecchio, Robert Mugabe, Presidente dello Zimbabwe, ha 90 anni e sta per far passare una modifica della Costituzione così da poter coprire un altro mandato.
Salito al potere nello stesso anno di Blaise Compaoré in Burkina Faso, vale a dire nel 1987 (27 anni fa), Mugabe non potrà però rimanere al potere quanto i suoi colleghi Eduardo Dos Santos in Angola e di Teodoro Obiang in Guinea Equatoriale, entrambi settantaduenni, che sono in carica già da 35 anni.
Aline Leclerc, Maxime Vaudano et Madjid Zerrouky, «Coups d’Etat, transitions apaisées : comment les dirigeants africains sont-ils arrivés au pouvoir?», Le Monde, 18 novembre 2014